Ottobre – Dicembre 2021

Leggo il libro di Maurizio Serra Il caso Mussolini. La vicenda di Mussolini offre all’autore l’occasione di raccontare la storia d’Italia dalla grande guerra  ad oggi. Mi colpisce che veda la continuità di tale storia in una guerra civile iniziata negli anni 1919-1922 ed  esplosa dopo il 1943 con la Repubblica di Salò, e che ne parli come di una ferita non ancora rimarginata.

Dopo avere letto il libro di Serra leggo quello di Federico Rampini Fermare la Cina. Dal passato al futuro; un futuro che fa di quel passato qualcosa che è come non ci fosse mai stato.

Il filosofo cui piace esibirsi in televisione dice con sicumera che i dati non esistono, esiste solo l’interpretazione dei dati. Ma se fosse così esisterebbe il dato che soltanto il potere potrebbe compiere l’arbitrio di trasformare in  un dato l’interpretazione di un dato.

I coloni americani  peggio dei Nazisti perché sono riusciti a fare ciò che i Nazisti non sono riusciti a fare: a trasformare il genocidio da loro compiuto in una loro epopea.

Una scelta non è necessariamente un errore, ma ogni scelta si presta ad essere vissuta come un errore, indipendentemente da che lo sia o meno.

Una visione che si allontana e rischia di scomparire nella nebbia venendone inghiottita come l’ombra di Creusa. Fare di tutto per trattenerla e perché resti ancora con te. Fare di tutto significa non fare niente.

Si dice “cullarsi nel ricordo”, ma meglio dire “essere cullato dal ricordo”.

Post coitum omne animal triste. Non é necessariamente vero: il vissuto successivo all’orgasmo dipende dalla qualità del rapporto.

Etimologia della parola “esistere”. Dal latino exeo: uscire, andare fuori, andare via, partire; ma anche terminare, finire. Da exeo poi exitum:  conclusione, uscita di scena. L’insieme di questi significati descrive i momenti dell’esistere e traccia una parabola che va da un inizio a una fine. Se si esce dal coro bisogna restare in silenzio.

Giugno-Settembre 2021

Ho recensito su Psychiatryonline il film di Marco Bellocchio Marx può aspettare. Si trova a questo link. http://www.psychiatryonline.it/node/9283

Ho visto A single man diretto nel 2009 da Tom Ford e tratto dall’omonimo romanzo di Christopher Isherwood. E’ ambientato a Los Angeles. Racconta di un omosessuale che perde il proprio compagno, con il quale convive da sedici anni, per un incidente di auto capitatogli mentre viaggiava per raggiungerlo. Sconvolto dalla notizia, cerca conforto andando a piangere tra le braccia di una donna con la quale aveva avuto una storia sedici anni prima a Londra, e che aveva lasciato per unirsi al compagno ora perduto. Non trova però tra quelle braccia sufficiente conforto. Pensa dunque che la vita abbia come solo futuro la morte e matura un’intenzione suicida. E’ un professore e comunica quel pensiero agli allievi. Dice loro che  la vita dei singoli è dominata dalla paura di quel futuro che incombe anche sull’umanità minacciata dalla catastrofe nucleare.

Di quale morte parla il protagonista? E’ come se un disturbo del pensiero lo inducesse a parlare, a un tempo e confondendole, della sua morte interiore e della sua morte reale; là dove questa starebbe a significargli  il momento del riscatto dalla sua morte interiore, il portale di accesso a un futuro, a una nuova vita che gli restituisse quella perduta.  

Gli si accosta un giovane allievo. Si dice sedotto dal fatto che nella lezione appena tenuta avesse dismesso le vesti accademiche per parlare di una paura abitualmente taciuta. Ma forse è sedotto anche da altro. Sia dal fatto che il professore gli avesse indicato nella morte reale un momento di riscatto da una morte interiore che l’allievo vedeva riflessa nell’indifferenza della sua bella e sensuale compagna; sia dalla presunzione di poter distrarre il professore dall’intenzione di darsi una morte reale. Tuttavia né la seduzione esercitata su di lui da questo giovane, né quella esercitata su di lui da un altro giovane disposto a prostituirsi, né il tentativo della sua ex compagna di ricondurlo a sé danzando di fronte a lui e trascinandolo a danzare con lei, distraggono il protagonista dalla sua  intenzione suicida. Continua a coltivarla sedotto a sua volta dal potere che gli conferiva di attrarre altri a sé.  Avrebbe continuato a farlo se la morte non lo avesse raggiunto all’improvviso, come a significare che a coltivare quell’intenzione si finiva in un vicolo cieco.

Il film è stato da molti considerato un bel film. In effetti ha una bellezza formale che riflette sia quella del mondo di oggetti entro il quale il protagonista si muove, sia la perfezione del suo vestire. Non è un caso che il regista abbia lavorato con Gucci e con Yves Saint Laurent ed abbia egli stesso ideato una linea di moda.  E’ però una bellezza che mi ricorda quella, definita “grande” senza esserlo, di un recente film di un regista italiano, intitolato appunto Una grande bellezza, che, al  pari di questo, trasmette un messaggio mortifero e confusivo.

Credo sia stato questo messaggio a farmi avvertire un certo malessere dopo avere visto il film. Per liberarmene mi è parso prioritario non dare per scontato che la perdita subita dal protagonista fosse dovuta all’incidente che ha provocato la morte del suo compagno e bisognasse piuttosto chiedersi cosa mai egli avesse in realtà perduto.

Le scene iniziali del film comprendono un dettaglio che ritengo significativo. Nell’apprendere la notizia della morte del compagno, il protagonista, con una mossa che sorprende chi gli sta comunicando la notizia, si preoccupa della sorte toccata a uno dei due cani che stavano nell’auto e che non era stato ritrovato insieme all’altro morto sul luogo dell’incidente. Gli viene risposto che non ve ne è nessuna traccia: dunque non è detto sia morto, è scomparso.

La cosa finisce lì. Nel seguito, il protagonista non compie alcun tentativo di ritrovarlo, né si può dire che lo ritrovi in un cane che incontra per caso e bacia, abbraccia e annusa, perché poteva essere che egli non vi vedesse quello scomparso, ma quello morto accanto al cadavere del compagno.

Era dunque questa la perdita subita dal protagonista? Non era quella del compagno, ma del cane scomparso in quanto scomparso? E’ stato seguendo la traccia di questo interrogativo che mi è affiorato il ricordo di un altro film, L’avventura, che Antonioni realizzò nel 1960. Anche in quel film si tratta di una perdita dovuta a una scomparsa. Non però di un cane, ma di una donna. Certo, neppure un cane è un cane. Potrebbe essere il feticcio di un bambino. Ma se una donna scompare non può più esservi un bambino, il posto che egli occupa in un rapporto resta vuoto e il bisogno di negare che lo sia illudendosi che sia pieno può far sì che venga preso da un cane.

1960-2009, cinquanta anni, un passaggio di secolo. In  questo lasso di tempo è dunque avvenuto che la scomparsa di una donna lasciasse posto alla scomparsa di un cane. Forse, allora, è stato per questo, non per altro, che dopo avere visto il film e partecipato al cineforum ho avvertito un certo malessere.

Il film è ricco di citazioni di altri film, ma tra questi non vi è quello di Antonioni. Non poteva esservi perché era stato dimenticato, era andato perduto. Dunque la perdita che il protagonista subisce e che lo porta a dire che la morte è il futuro  non è la perdita del suo compagno, ma quella di quel film. Del mondo di problemi, pensieri, affetti, desideri, attese, timori, sconfitte che Antonioni poteva ancora rappresentare cinquanta anni fa. Il suo film non si chiude con una morte improvvisa, ma con un pianto del suo ben diverso protagonista. Possiamo intenderlo come il pianto dovuto alla previsione di quanto sarebbe accaduto nei cinquanta anni a venire, e cioè che la scomparsa di una donna divenisse la scomparsa di un cane. E se quel pianto diceva che ella continuava a venire cercata, quella morte inaspettata dice che non vi è più ricerca, che ella non può più essere ritrovata e che non vi è più posto per alcun bambino.

Non poteva essere ritrovata nonostante ricomparisse nel film nell’immagine della donna lasciata dal protagonista sedici anni prima, nonostante ella danzasse di fronte a lui come a volerlo risvegliare da un sonno di morte in cui doveva essere caduto poco prima di lasciarla.

Al mio malessere deve avere contribuito anche il fatto che nessuno dei presenti al cineforum si sia interrogato su cosa fosse accaduto allora. Qualcosa doveva essere accaduto, poco prima che egli la lascasse perché egli potesse fare la scelta dell’omosessualità. Non era infatti nato interiormente morto, cioè con quel disturbo del pensiero che lo portava a ritenere che la morte reale, che è assenza di futuro, gli avrebbe dato un futuro nel quale sarebbe di nuovo stato interiormente vivo.  Né è detto che la sua scelta gli fosse predestinata, o che trovi spiegazione nella biologia, o che consegua liberamente all’inesistenza di un’identità di genere. Prima di concludere in uno di questi sensi bisogna chiedersi se essa non sia conseguita a una dinamica.

Forse era accaduto che la donna abbandonata dal protagonista avesse già danzato di fronte a lui  e l’avesse anche per un solo istante trascinato in una danza che lo aveva turbato e indotto a decidere di non lasciarsene turbare più, tanto meno sedici anni dopo.

Alcuni critici hanno richiamato l’attenzione sul fatto che la morte coglie il protagonista subito dopo che il giovane allievo aveva tentato di sedurlo e ravvivarlo mostrandogli il proprio corpo nudo, e ne hanno tratto che Eros è sempre accompagnato da Thanatos.  Thanatos però doveva essere intervenuto ben prima.  Non ad accompagnare Eros, ma a determinare nel protagonista la scomparsa dell’oggetto per lui attuale di Eros. Con la scomparsa di quell’oggetto doveva essergli  scomparso anche un sentire che quell’oggetto gli evocava e che lo manteneva vivo. Non doveva dunque essergli rimasta altra via di recuperare una parvenza di quel sentire se non la scelta omosessuale.

Il film è ricco di allusioni e rimandi significativi che debbo astenermi dal raccogliere. Avendo presente il suo insieme, mi viene piuttosto da dire che potrebbe essere recepito come se fosse una tragedia greca. Come se rappresentasse un percorso che priva il mondo degli oggetti di Eros e del sentire che essi inducono, per popolarlo di feticci che si susseguono ossessivamente e si accumulano senza poter  restituire quanto scomparso e perduto. Vi manca ed è mancato però il coro che nella tragedia greca induce la catarsi e apre alla nuova vita. Oppure è accaduto che una cultura, della quale il film è partecipe e che si è venuta affermando in questi ultimi cinquanta anni, abbia reso la voce del coro tanto flebile da avvicinarsi a non poter essere più avvertita e ascoltata. Forse, dopo tutto, è stato questo a farmi avvertire un certo malessere.

Leggo il romanzo di Paola Melis L’altra vita. L’Autrice dà prova di un bel coraggio a porre in excerpta al libro il Moloch delle parole di un esistenzialista – nihilista rumeno,  Emil Cioran,  che sentenziano l’inutilità di essere nati.  Al lettore può volerci un po’ per comprendere che si tratta di una dichiarazione di guerra. Lungi dal farle sue, l’Autrice deve averle poste lì per significare il proposito di demolire quel Moloch con la parabola del suo discorso.

Una parabola apparentemente semplice, che un lettore distratto potrebbe assimilare a quella di un romanzo rosa, ma ampia, complessa, nutrita di competenze non solo filosofiche, mediche e psicopatologiche, ma anche dovute alla personale esperienza di rapporti umani.

Nel primo tratto della parabola si viene a sapere in crescendo di una malformazione neonatale della protagonista, della sua infanzia ospedalizzata, di una madre indifferente, di nonni caritatevoli ma banali, di un padre incolore e distratto, di una conseguente multiforme patologia della protagonista stessa, del suo tentativo di vivificarsi adottando comportamenti borderline che la spingono nel nulla di un vuoto interiore. Questo crescendo raggiunge l’apice con la morte del fratellino: con essa viene infatti meno l’unica realtà che, senza che lei lo riconoscesse e che anzi negava, la legava alla vita. Non le resta ora altro che insistere nel tentativo di costruirsi, avvalendosi del “trauma assoluto” indottole dal suo disastroso passato, un’identità fittizia fondata sull’orgoglio di sentirsi unica sfortunata e reietta: un Cristo crocifisso o una Madonna dal cuore trafitto con lo sguardo rivolto al cielo ripetendo ossessivamente il ritornello dell’attesa di “un’altra vita” che non potrà venire mai.

Raggiunto l’apice di questa piena descrizione del Moloch, la parabola volge ora verso la sua demolizione. Cruciale il momento in cui la protagonista, nell’intenzione di avvelenare se stessa, avvelena la madre. Bisogna astrarsi dalla fattualità di questo momento e leggerlo come si leggono i sogni. Nella sua confusione mentale, uccidendo se stessa ella intendeva, senza averne coscienza, poter uccidere la madre che era in lei. Intendeva spurgarsi, per mezzo di un veleno, del veleno dell’indifferenza che aveva assorbito con il latte materno. E’ l’inizio di una salutare separazione interiore cui spontaneamente e necessariamente consegue la comparsa dell’immagine di una nascita possibile.

Quella separazione e quella connessa comparsa costituiscono però la condizione essenziale e prioritaria, ma non sufficiente,  di una risalita della protagonista dall’abisso del nulla in cui era precipitata e della demolizione del Moloch filosofico sotto il cui peso stava sepolta. Accade così che subito dopo entri nel suo mondo un’immagine virile. Mentre ella giace in un letto di ospedale tra la vita e la morte, a un passo dal definitivo nulla ed esibendo tutta la sua bruttezza, entra in scena un medico che si innamora di lei. Non è però un principe azzurro che viene a decretare il lieto fine di un romanzo rosa. Con il suo ingresso la parabola esplode in una ampiezza di significati che non possono essere raccolti e contenuti dall’intelletto, solo accennati.

Se si innamora di lei è perché sa che solo una donna che sa di essere brutta può lasciarsi costringere a diventare bella. Sa anche che soltanto strappando al nulla un altro da sé può liberarsi dal proprio nulla. Deve avere anche compreso che per liberarsene  non gli basta strappare gli altri alla morte grazie alla sua perizia di chirurgo.

Come accade in un rapporto analitico, e come non avrebbe potuto essere altrimenti, la protagonista lo cimenterà all’estremo per fallire e farlo fallire nel tentativo di riportarla a “questa” vita. E invero è difficile dire da dove egli tragga la forza di non crollare; forse dal fatto che la protagonista stessa lo soccorrerà una volta crollato. Insieme potranno accogliere quell’immagine di una nascita possibile diventata reale alla scomparsa dell’indifferenza materna, non a caso accaduta nel momento stesso del loro ritrovarsi.

Il fatto poi che il figlio in cui quell’immagine prende corpo, e del quale si prendono cura, non sia il loro figlio propone un messaggio di alto valore che ha il potere di demolire definitivamente il Moloch che sentenzia l’inutilità di essere nati. Sta infatti a dire che oltre la procreazione c’è la creatività; che su di essa è possibile costruirsi un’identità non più fondata sull’orgoglio di essere sfortunati e reietti per avere subito un trauma, per quanto “assoluto”; e che non c’è bisogno di volgere gli occhi al cielo in cerca di un’altra vita perché l’altra vita è quella che possiamo vivere se non le sfuggiamo e la sveliamo.

Il fatto che un’opera d’arte, un romanzo, un film non raccontino fatti, ma tentino di esporne il significato, li mette sullo stesso piano del sogno e legittima che vengano accostati allo stesso modo in cui si accostano i sogni.

L’altra vita è sempre questa vita, ciò che di essa ci sfugge, o non vediamo, o lasciamo scorrere via.

Un solo modo di recuperare magici momenti nei quali si è ascoltata musica: ascoltare musica, non però quella ascoltata in quei momenti.

Spesso la paura della morte si presenta quando si lascia un luogo abituale e sicuro ed è dovuta al timore di non disporre del tempo necessario  a soddisfare desideri  che non vengono avvertiti fintanto che si sta nel guscio di un luogo abituale e sicuro.

Il riso è un  affetto che sorge nell’improvviso trasformarsi in nulla della tensione di un’aspettativa.

Interpretare i sogni facendo uso delle nozioni apprese significa lasciare solo chi li racconta, rendersi a lui assente.

Ci sono cose che un pazzo non direbbe mai perché avrebbe paura di essere preso per pazzo.

Nell’insistenza della destra  non solo italiana ad ampliare la libertà di movimento ed aggregazione nonostante la pandemia vi è qualcosa di più dell’intenzione di privilegiare l’economia a scapito della salute. Vi è l’intenzione di mantenere costante il terrore indotto da tale presenza. La convinzione che il terrore indotto dalla presenza di un nemico sia lo strumento di potere e di governo dei pochi è sempre appartenuta ai preti e alle destre.  I primi hanno affidato la presenza del terrore alla costante presenza dell’idea della morte; i secondi alla presenza di nemici esterni visibili. Oggi è cambiato solo che non  c’è stato bisogno di creare il nemico perché è venuto da sé e che non è un nemico visibile, ma invisibile e dunque tale da accrescere il terrore.

Gennaio Maggio 2021

Elido Fazi, nel romanzo  Potenza e bellezza, mette in contrapposizione le vicende del regno di Napoli e quelle di Leopardi, la potenza e la bellezza, Waterloo e L’infinito.

Mko Kawakami, Seni e uova. Due sorelle: una vuole un figlio per via di inseminazione artificiale, l’altra vuole rifarsi il seno. Due tentativi disperati e maldestri di essere creative. Per fortuna c’è la figlia adolescente della seconda che le contrasta opponendo loro il suo mutismo.

Murakami, in Prima persona singolare, nel capitolo che intitola con il titolo di un pezzo per piano di Schumann, “Carnaval”, scrive che  la donna bella per sciogliere le catene della propria bellezza deve passare attraverso il trovare in sé qualcosa di brutto e che la donna brutta è favorita rispetto a lei perché, essendo brutta, può trovare in sé qualcosa di bello senza dover passare attraverso il trovare qualcosa di brutto.

Visto il film di Faenza, La verità sta in cielo, sul caso di Emanuela Orlandi. Emanuela come l’Ifigenia di Euripide. Ifigenia sacrificata affinché un padre, il suo, potesse conquistare Troia. Emanuela sacrificata affinchè  un papa, il suo, potesse conquistare Varsavia.

Bruno usa la geometria, la matematica e la mitologia come strumenti per scoprire ciò che, di quanto non si vede, può essere visto.

«L’uniformità procura nausea  a tutti i sensi» (Bruno, Arte della memoria, 95)

Bruno, De monade, numero et figura: “Il cerchio è la radice di tutte le figure, principio di formazione e punto di riferimento, in sé tutte le riassume, abbraccia, inscrive, è in loro inscritto, le empie, le commisura, le uguaglia. Da questa fonte e da questo primo progenitore fluiscono le figure che, per essere chiarite, ricercano il suo foro ed il suo giusto tribunale ed in esso tutte si risolvono quando aumentano e diminuiscono: così l’orizzonte si allarga secondo l’immagine del cerchio, quando si allontana sempre più dai nostri sensi; così i corpi sembrano assumere la sua forma alla vista, mentre si vede che gli angoli si smussano ed il volto delle cose perde le differenze dei lati, assorbite nelle specie dei principi per cui dissolvendosi scompaiono dagli occhi.” 

Bruno: dalla teoria del conflitto alla teoria dei contrari, dalla ricerca dell’unità alla ricerca delle relazioni.

Bruno: il molteplice che appare se viene meno la tirannia dell’uno non porta all’anarchia perché obbedisce alla regola dell’armonia che risulta dalle relazioni. Lo stesso pensiero di Eraclito.

La ricerca dell’unità produce il molteplice delle opinioni perché frantuma l’idea della verità nel senso che porta a dire il falso su quanto la ostacola, fino a negarne l’esistenza.

Nel giro di pochi anni (1513-1591) la necessità di superare gli ostacoli posti nel frattempo alla volontà, dichiarata da Machiavelli, di inoltrarsi per «vie non trite» ha fatto sì che esse dovessero darsi più ampi spazi aprendosi all’incommensurabile e all’infinito fino a correre il rischio che ne scomparisse traccia tra le fiamme di un rogo.

Il principe di Machiavelli diventa il furioso di Bruno.

Il Rinascimento è per me ciò che l’antico Egitto era per Bruno, il tempo di un bene dimenticato.

Keplero. Misterioso nesso tra gli astri e l’arte: l’astronomo e l’artista  sono guidati dalla stessa ricerca dell’armonia.

L’armonia, in quanto manifestazione della bellezza, non ha forma.

Kant aveva capito quello che Freud nella sua risposta a Rilke dà prova di non avere capito: che il bello non è una qualità di un oggetto, ma di un sentimento puramente soggettivo nel senso che quel sentimento non viene detto bello in base a criteri di giudizio esterni ad esso; e che, in quanto tale, appartiene a tutti i soggetti, è universale perché soggettivo. Aveva però distinto il bello dal sublime e gli era sfuggito che esiste un’esperienza del bello che nasce dall’esperienza del sublime..

Che cosa è il brutto se non la perdita del bello?

La parola “bello” distrae da ciò che con essa si intende significare perché spesso il bello viene confuso con il gradevole.

Le unghie colorate delle donne sono belle perché hanno un effetto ipnotico.

Le donne non hanno forma, per questo sono belle.

Ogni sogno è una monade, dotata però di finestre.

Ciascuno nel corso della sua vita fa miliardi di pensieri, crea miliardi di immagini, vive miliardi di emozioni, compie miliardi di movimenti. Stelle fisse, pianeti, soli, comete. L’infinito del quale egli è l’irriducibile che lo misura, come il resto diurno dà la misura del sogno.

Gli Aborigeni cercano il resto diurno non nelle storie individuali, ma nella storia della collettività.

La notte abbiamo la possibilità di contemplare due celi: quello fuori di noi mentre siamo svegli e quello dentro di noi mentre dormiamo.

Se non ci fossero gli orologi non avremmo nozione del tempo, solo del divenire.

Non c’è bevanda più avvelenata di quel punch al Lete che Freud racconta il 9 settembre del 1897 di avere sorbito.

Chi ha sorbito un punch al Lete difficilmente potrà poi parlare di armonia.

Al collega che espone la teoria di Bowlby sull’importanza del caregiver nella formazione dell’Io chiedo di dirmi che differenza c’è tra il caregiver e Dio. Mi risponde sottolineando le buone intenzioni del caregiver e il suo disporsi nel rapporto su un principio di uguaglianza. Cioè non mi dice della differenza tra il caregiver e Dio, ma della differenza tra un caregiver Dio cattivo e uno Dio buono.

L’idea di un nucleo valido originario è presente nello stesso mito dell’Eden almeno nella lettura che ne fa Bacone (Hillary Gatti, Le origini della scienza nel Rinascimento, p. 269). La permanenza nel paradiso viene prima della caduta.

Ogni soggiorno in paradiso è seguito da una caduta che provoca un tale dolore da spingere ad evitare quel soggiorno o a dichiararlo inesistente o esistente nel passato o nel futuro, e tutt’altro da quello che è.

La famiglia può non essere una culla, ma una prigione.

Ad ogni abbandono si riapre un buco nero, si sveglia un mostro che giace negli abissi.

Dopo il giorno torna la notte, inevitabilmente torna la notte e tutto ciò che puoi fare è trarre dalla luce del giorno di ieri la forza di sopravvivere alla notte  e di andare incontro ad altri giorni.

La saggezza degli anziani non consiste essenzialmente nel loro sapere cose che altri non sanno e che può essere utile dire, ma nella libertà di dire cose che altri sanno e non sono in grado di dire. Consiste cioè nel fatto che compete loro la responsabilità di dire il vero.

La forza dei social: dare l’illusione di rendersi visibili agli altri e di rendersi visibili a se stessi illudendosi così di essere nati.

Cannibalismo: quello che nell’attuale pandemia ha spinto singoli e gruppi a scavalcare altri singoli e gruppi nell’accesso al vaccino e a fondare la propria salvezza  sulla morte altrui è una forma light di cannibalismo.

L’epidemia del politicamente corretto: la difesa dei diritti di alcuni comporta la negazione di diritti che dovrebbero essere di tutti.

Nella tendenza della destra non solo italiana ad ampliare la libertà di movimento in tempo di pandemia vi è qualcosa di più  dell’intenzione di privilegiare l’economia sulla salute. Vi è l’intenzione di mantenere costante la presenza di un nemico e il conseguente stato di terrore. La convinzione che il terrore indotto dalla presenza di un nemico sia lo strumento di potere e di governo di pochi è sempre appartenuta ai preti e alla destra. I primi si sono serviti e si servono dell’idea della morte per rendere costante la presenza del terrore. La seconda non ha oggi bisogno di creare il nemico perché è venuto da solo e per di più non è un nemico visibile, ma invisibile, e dunque tale da accrescere il terrore.

 Ascolto in Tv un’intervista al personaggio dichiaratamente omosessuale che ha curato le pubbliche relazioni di Giuseppe Conte. Il problema con alcuni omosessuali non è che siano tali, ma che in quanto tali alcuni di loro si sentano in diritto di dire qualsiasi sciocchezza e di accusare di omofobia che gliela faccia notare.

Ricompare Santoro in uno degli ultimi “di Martedì” di maggio: arrogante, presuntuoso, insopportabile, sciocco: confonde la democrazia con l’anarchia.

La stupidità rende onnipotenti e ben poco si può  contro il  muro della stupidità. Oggi come al tempo di Bruno: Asini asinos fricant.