Novembre e Dicembre 2019

Visto casualmente in TV un vecchio film su Leopardi, Il giovane meraviglioso. Melenso e lacrimoso, l’auto compiacimento, lo spleen, il fare della propria miseria un valore, suscitare pietà. Leopardi aveva cercato di portarci a guardare oltre i confini del quotidiano sentire. Il film lo fa rientrare entro i canoni di una sensibilità definita dalle fiction televisive.

Da un po’ di giorni due voci impostate e falsamente ispirate recitano più e più volte in TV L’infinito di Leopardi  con il risultato di banalizzarlo, di togliergli ogni possibilità di suscitare emozione e di rendermelo insopportabile.

Vedo in libreria una biografia di D’Annunzio: Maurizio Serra, L’immaginifico. Vita di Gabriele D’Annunzio. Fin dai tempi del liceo non ho avuto simpatia per lui; però mi sono detto “andiamo a vedere” e ho comprato il libro. Ne è valsa la spesa perché, a parte tutto, è un grande spaccato su un periodo della storia italiana.

A proposito di D’Annunzio, nulla di più pertinente di quelle parole di Bion: «A un emozione si sostituisce una non emozione che sembra un’emozione». Forse nulla di più pertinente anche per le molte donne che ebbero rapporto con lui: egli forniva loro una non emozione che sembrava l’emozione che esse avevano perduto. Non erano però né lui né loro ad averla persa, ma un’epoca in seguito a una lunga storia e contro cui a nulla era valso il tentativo fatto poco prima da Leopardi di riproporre l’emozione ricordando l’esistenza di infiniti mondi o degli «occhi  ridenti e fuggitivi» di una donna.

Anche l’entusiasmo per la guerra che tanti in quell’epoca condivisero con D’Annunzio rientra in questo fenomeno della disperata ricerca di qualcosa che sembra un’emozione, ma è una non emozione che consegue alla perdita della capacità di emozionarsi.

La quantità delle droghe assunte da D’Annunzio negli ultimi anni dà la misura del vuoto che lo ha accompagnato e che ha cercato di riempire con parole ampollose e vuote e con atti che gli facessero credere, e facessero credere, che aveva oltrepassato la norma nella quale stava chiuso.

Leggo il libro di Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo. Rende evidente e porta a coscienza un fenomeno che abbiamo sotto gli occhi: la distruzione dell’oggetto che attrae. Il caso emblematico di Venezia. Il processo di snaturamento di quartieri di città, come Trastevere a Roma, o di intere città, come appunto Venezia.

Un fenomeno a tutto campo. Tutto viene consumato: Leopardi, la bellezza delle città, la natura.

Vedo poi su Piazza pulita il servizio sui bambini di Taranto resi leucemici  dalla presenza dell’ILVA. Anche loro vengono consumati, lo Stato è come il Minotauro.

Visto il film di Polanski sul caso Dreyfus. Un modo di raccontare magistrale. Ma, a parte questo, e a parte i riferimenti autobiografici, mi ha ricordato un suo film degli anni settanta di cui a suo tempo molto si parlò: Rosemarie Baby. Una donna, per sfuggire al diavolo va a finire a cercare aiuto in qualcuno che non sembra il diavolo ma lo è. Nel film sul caso Dreyfus coloro da cui ti aspetti giustizia ti condannano. Cioè qui non è più “distruggiamo ciò che ci attrae”, ma “ciò che ci attrae ci distrugge”.

Roma è invasa dalle foglie cadute. Ostruiscono i tombini e, quando piove,  la città rischia l’allagamento. Con l’aria che tira, c’è chi potrebbe propone di risolvere il problema tagliando via tutti gli alberi della città.

Vengo criticato perché cerco di riportare il molteplice all’unità. Mi si dice che così privo delle loro caratteristiche i fenomeni che compongono il molteplice.

Facendo pulizia di vecchie carte trovo uno scritto che  doveva essere una tesina per l’esame di filosofia teoretica in cui mi ponevo il problema dell’unità dell’esperienza. In un modo acerbo e quanto mai astratto, ma me lo ponevo. Senza saperlo ho continuato sempre a pormelo. Chi sa cosa sto cercando di me.

Nel verbo “comprendere” è implicita l’idea dell’unità. “Comprendere” è raccogliere dentro, unificare. E’ fare l’esperienza del portare ad unità. Ci si sente frammentati, fatti di pezzi, tormentati quando non si riesce a trovare l’unità della propria esperienza.

Due chiacchiere con un amico. Ci chiediamo che rapporto c’è tra ricerca delle connessioni e ricerca dell’unità. Ogni connessione che trovi, ti volge a cercarne un’altra verso un orizzonte di unità.

In fondo la cura, se intendiamo la cura che porta alla guarigione, è la ricerca di una nuova unità cui ti spinge la perdita di una unità.

Sognato di stare incantato a guardare da una finestra il volo delle rondini. Ciò che mi incantava era che movimenti quanto mai divergenti, cambi di direzione improvvisi e inattesi, davano un senso di unità e di armonia.

Un amico è angosciato e vede tutto nero perché non riesce a comprendere quello che sta accadendo, e cioè l’ondata di sovranismo, populismo, intolleranza che sta disgregando il mondo in cui è vissuto e perché non riesce a immaginare il mondo che verrà. Non riesce a comprendere nella sua esperienza quanto sta accadendo, non riesce a stabilire un nesso tra la sua storia e la storia del mondo.

Un amico ha una visione della situazione attuale ancora più catastrofica della mia. Non sostiene solo che presto si aprirà sotto i nostri piedi un abisso. Sostiene anche che non ce ne rendiamo conto o che ce ne rendiamo conto ma non ci crediamo, così come gli Ebrei nella Germania di Hitler non si rendevano conto di quanto li attendeva oppure se ne rendevano conto ma non ci credevano.

Un amico mi dice che dalla ferita aperta da una perdita può scaturire una linfa vitale. Guai a volerla suturare. Ha ragione, ma lui è uno che vede il bicchiere sempre mezzo pieno.

Il rischio di sentirsi qualcuno per il fatto di essere nessuno.

C’è stato un video della presentazione del mio “Storicizzare Freud” agli studenti della Facoltà di Psicologia. Erano molti, ed è andata bene. Però vedendomi poi nel video mi è sembrato di vedere una persona che non  conoscevo. Insomma, mi illudevo di essere un po’ più giovane. By the way, il video, per chi voglia vederlo, sta su questo sito.

Ottobre 2019

Perché e come la parola “estetica”, che indica anzitutto l’aspetto della filosofia riguardante il rapporto tra i sensi e il mondo esterno, è giunta a indicare l’aspetto della filosofia riguardante l’arte in quanto elaborazione di quel rapporto volta ad incidere sul mondo interno?

Così, all’improvviso, mi accade di “sentire” il senso profondo di un frammento di Eraclito che avevo fin qui recepito solo razionalmente: «Mettendoti a viaggiare non scoprirai mai i confini della psiche, anche se tu dovessi percorre ogni sentiero: tanto è profondo il suo logos». Mi accade quando mi risuona in mente ciò che Freud dice sull’”ombelico del sogno”. Egli dice che è inattingibile ed ha ragione. Solo che non si tratta di un ombelico, di una realtà puntuale. Si tratta piuttosto del fatto che ogni sogno, al di là di quanto di esso si può comprendere, affaccia su un mondo dentro di noi la cui profondità equivale a quella che ci stupisce quando in una notte stellata ci stupiamo contemplando il cielo sopra di noi e i cui confini, come quelli del cielo, non potremo mai raggiungere perché forse non esistono.

Un sogno viene a dirmi cosa significa “razionalismo” e perché non può altro che scalfire la superficie delle cose fermandosi al loro esterno. Quel sogno mi dice che è perché si attiene per natura e definizione ai dati del senso che restituiscono sempre solo la superficie delle cose. Nel sogno vi era la chiara sensazione di un mondo nascosto dietro quella superficie. Non devo però sorprendermi più di tanto per questo sogno. La superficie delle cose è le loro forme  e tutte le volte che esse  vengono dissolte si esce dal razionalismo.

Una mostra d’arte alla Galleria d’Arte Moderna di Roma. Certa arte moderna sembra condurre all’estremo la dissoluzione delle forme iniziata nel Rinascimento.  Ma la sua dissoluzione delle forme è fine a se stessa, non al fine di comunicare un valore che per tale dissoluzione appare. E dunque in sé priva di valore e deve perciò ripiegare sul valore che le dà il mercato. Quell’arte, in quanto conduce all’estremo quella dissoluzione senza approdare a un valore, è assimilabile a un’espressione schizofrenica.

Il timore di essere predestinati all’Inferno, che ossessionava i ginevrini del Seicento, può essere inteso come  timore di impazzire? Il loro bisogno di sapere se si è o no predestinati all’inferno può essere inteso come bisogno di sapere se si sarebbe diventati o no pazzi? Calvino ritenne di poter curare questo timore e rispondere a questo bisogno costruendo la religione del guadagno:  il successo negli affari era il segno che non si era predestinati all’inferno e viceversa. Il denaro era il feticcio che poneva al riparo dall’angoscia di un buio futuro. In questo senso la religione di Calvino equivale alla istituzionalizzazione del feticismo.

L’oggetto  transizionale teorizzato da Winnicott è un feticcio, anche se, a differenza di quello di Calvino,  è un feticcio che in circostanze sufficientemente buone può essere abbandonato ed è dunque un feticcio buono.

Analisti nelle nuvole. Una collega mi racconta di avere sognato una donna che abitava fuori di Roma e di avere il giorno dopo saputo che era venuta in città. E’ certa trattarsi di un sogno telepatico e se ne dice stupita.  Quando mi comunica il nome di battesimo di quella donna, le faccio notare è lo stesso di una persona che sapevo essere per lei importante. Là  per là resta stupita  e forse vede balenargli la possibilità di procedere  con i piedi per terra lungo sentieri non banali nella comprensione del  suo sogno. Ma subito richiude la finestra che le si è così aperta e torna tra le nuvole. Il punto qui è la differenza i due stupori: quello che ha vissuto quando si è resa conto che il nome di battesimo della donna del sogno è anche di un’altra persona, e quello che ha vissuto quando ha saputo che la donna sognata era il giorno dopo venuta in città. Il primo è come un lampo che illumina un paesaggio, un bengala che rompe un buio; il secondo non è uno stupore, è un momento di ebetismo.

Analisti nelle nuvole. Tornando da una scuola di psicoterapia dove ero stato a parlare de Il trauma dimenticato, quanto vi avevo ascoltato mi fa pensare che i giovani psicoterapeuti infarciti di nozioni stantie dovrebbero invece sapere, scoprire, un fatto ovvio: che non c’è analisi senza analisi del transfert, solo chiacchiere, solo un vagare tra le nuvole che dura fintanto che il transfert, che c’è e sta li come deposto in una bara,  non muoia davvero per inedia. Quel loro vagare tra le nuvole è una cosa disonesta, un furto. Ma così va il mercato.

Analisti nelle nuvole. Un collega mi racconta di un paziente che pur, almeno così dice, innamorato della moglie, ha frequenti e compulsive  avventure omosessuali. Mi chiede cosa io ne pensi sul perché ciò accada. Gli rispondo citando Kirkegaard: “Perché la donna è tremenda”. Non capisce. Proseguo e gli dico che, come Kirkegaard si rivolgeva a Dio per evitare la donna che gli appariva tremenda, così quel paziente si rivolge per evitarla a Dio. Cioè gli dico che per quel paziente gli omosessuali sono Dio. Non so come quel collega mi abbia in seguito a ciò diagnosticato.

Analisti nelle nuvole. Alcuni psicoterapeuti ingenuamente e allegramente liberisti pensano che nella masturbazione si realizzi e soddisfi il desiderio, mentre in realtà lo si spegne ed uccide perché non c’è desiderio senza oggetto e nella masturbazione non c’è oggetto, ma il suo fantasma. Poi nella vita si vive la lacerazione e il tormento di non sapere se gli oggetti che si incontrano sono oggetti reali o fantasmi. Poiché gli oggetti reali sono stati resi fantasmi, si può vivere anche una diffusa angoscia di morte. Può aprirsi un abisso nella cui profondità abita un mostro, un mezzo uomo e mezzo animale, forse un Minotauro.

Il linguaggio di Machiavelli è simile a quello onirico nel senso che, come ciascuna immagine del sogno sfuma in una molteplicità di significati possibili, così fanno i lemmi di quel linguaggio.

Per misteriose vie, la difesa di una teoria si accompagna sempre alla difesa di uno status sociale. Per fortuna io ho avuto un nonno che aveva fatto il carrettiere e aveva perso un braccio quando poi aveva fatto l’ufficiale postale sui treni; e non aveva dunque nessuno status sociale da difendere.

Pensiero banale, scoperta dell’ovvio, però scoperta perché è come toccare con mano qualcosa che soltanto si sa, e perciò non si conosce: l’impotenza sottende sempre, è sempre sostenuta da, si risolve in onnipotenza. Lo sapeva già Boccaccio quando scrisse  la novella di Calandrino e Buffalmacco.

Il momento del dreamtime, quello in cui cogli un frutto dall’albero della vita e senti che essa ha un valore, quello in cui tutto ti sembra possibile e forse lo è, è il momento in cui stai nel mezzo del passaggio dalla dissoluzione di una forma all’approdo ad un’altra. In esso si consuma il dramma di sapere che si spegnerà nella nuova forma, ma che ha bisogno per sopravvivere di approdare a una nuova forma che poi si dissolva. La paura che ti prende a un nuovo incontro è dovuta anche al timore che esso, di cui hai bisogno per rinnovare il dreamtime, è anche ciò che te lo potrà sottrarre.

Solo la musica può accompagnare ed esprimere pienamente il momento dell’assoluto possibile.

Ancora sul grande romando di Irène Némirovsky Due. Il dramma degli amanti che smettono di amarsi quando realizzano quello che a loro sembrava il bel sogno di poter vivere insieme.  E’per non poter realizzare quel sogno o per poter continuare ad amarsi evitando di realizzarlo che lui si augura che lei muoia e che lei si suicida? Uscire di casa aspettando qualcuno fa di quel qualcuno la propria casa e non c’è che da aspettare che muoia se non si riesce ad uscire da questa altra casa.

Due modi di risolvere il rapporto con qualcuno che ti è apparso come meraviglioso e che hai posto su un piedistallo. Uno consiste nel superare il tuo vaginismo riappropriandoti di quanto  v’è in te  di meraviglioso ed hai affidato all’altro riempiendoti il cuore di lui. L’altro è quello di opporgli il tuo vaginismo con l’intenzione di farlo cadere dal piedistallo per poterlo commiserare e interpretare.

Vaginismo e politica dell’oblio.

Persone che fanno male agli altri fanno male a se stesse, persone che fanno male a se stesse fanno male agli altri.

Stare con i tempi. Accettare che una cosa che ti appare in un modo ti appaia poi in un altro. Come a rivelare due realtà che, nel momento in cui sono, sono ambedue reali.

Più in alto vai, più il rischio di cadere è alto e più rovinosa la caduta.

Incrostazioni culturali: si dice “uomini” per dire “esseri umani” negando così persino l’esistenza della donna.

Vado ad ascoltare una conferenza che un mio amico, Luigi Capogrossi, tiene presso il museo dell’Ara pacis per presentare la grande mostra dedicata all’imperatore Claudio. Comprendo che ne fa un’occasione per parlare del presente. Sottolinea la politica di inclusione di quell’imperatore e come la durata della potenza di Roma sia stata debitrice della di lui apertura  agli “extracomunitari”. Come dire che ha parlato a nuora perché suocera intendesse.

Finisco di leggere il libro di Orlando Figes La tragedia di un popolo, un grande affresco sulla Rivoluzione russa. Più di mille pagine, ma ne è valsa la pena. Di libri su quell’evento ne ho letti più di uno, ma questo è senz’altro il migliore per ampiezza di prospettiva, ricchezza di informazioni e mancanza di condizionamenti ideologici. Ne risulta che non  v’è stata gran differenza tra Bolscevismo e Nazismo: ambedue pretendevano di cambiare gli esseri umani spersonalizzandoli ed omologanoli nella realizzazione di un Regno di automi per una perversa idea di uguaglianza.  Ne risulta anche che  protagoniste e artefici di quella tragedia di un popolo furono tre forme di pensiero magico: quella zarista che pretendeva di conservare magicamente le cose come stavano, quella dei Bolscevichi che pretendevano di cambiarle magicamente, e quella dei contadini che riponevano in una divinità la speranza che cambiassero. Un dettaglio interessante: Lenin ricorse alla psicologia, a Pavlov, per realizzare il Regno degli automi. Per non parlare di un ricorso al terrore di cui non sospettavo le dimensioni  e la disumana atrocità.

Il cardinal Ruini spezza una lancia in favore della costellazione sovranista. Prepariamoci al peggio.

A proposito di pensiero magico e a proposito del peggio, quest’estate ho scritto un dialogo, mi piace chiamarlo “ghiribizzo”, sulla situazione politica italiana e non solo. Sembra sia piaciuto a molti. Non è pubblicato, però sta su questo sito. Se qualcuno lo leggerà e mi dirà cosa ne pensa mi farà piacere.

Le idee, i progetti che mi vengono in mente sono molti più di quelli che riuscirò a realizzare.

Aprile-Settembre 2019

Visto Cafarnao, un film di Nadine Labaki. Prima di essere un documento drammatico sulla miseria di un momento del nostro tempo, è un poema sull’infanzia. Le immagini dei due bambini, ma più ancora il loro modo di recitare, smentiscono meglio di ogni studio il mito del bambino come essere polimorfo perverso.

Visto il film di Pietro Marcello, Martin Eden tratto dall’omonimo romanzo di Jack London. Non conosco quel romanzo. Stando dunque al film, mi hanno colpito molte cose: la recitazione di Luca Marinelli nella parte di Martin Eden anche se a tratti cade nell’eccesso; la trasposizione dell’ambientazione da San Francisco a Napoli; il continuo richiamo al sogno per rivelare il senso della vicenda reale. Soprattutto però il reciproco innamoramento di Martin Eden e della giovane aristocratica francese. Cioè non propriamente l’innamoramento, ma perché avviene. Certo, lei è una bella donna, lui un bell’uomo. C’è attrazione sessuale, cosa che di sicuro non va disprezzata. Ma questo è un altro discorso, l’attrazione sessuale di per sé non porta all’innamoramento. Perché questo appaia è necessario che l’incontro avvenga in un contesto di speranza e di progetto di vita, come a cercare nell’altro/altra la realizzazione della speranza e del progetto. Nel caso del film quel contesto sta nelle aspirazioni del giovane marinaio, in ciò che significa per lui il suo voler diventare scrittore e in ciò che per la giovane aristocratica francese significa che egli voglia diventarlo.  E sullo sfondo c’è la speranza e il progetto di vita del Socialismo. E’ come se il film cogliesse ed esprimesse una legge generale dell’innamoramento. La legge per cui, affinché esso appaia, è necessario che l’uno rappresenti per l’altro la speranza di una vita possibile futura. E può rappresentarla se si dà il caso che insieme e contemporaneamente abbiano incontrato qualcosa che dice di questa speranza. Nel film il Socialismo. Ma già Paolo e Francesca si innamorarono leggendo un libro che diceva loro della speranza di una vita futura. Vettori si innamora di Costanza, cioè, come dice lui, “la vede co li ochi”, perché e quando, leggendo Il principe del suo amico e compare Machiavelli, aveva incontrato una speranza e un progetto di vita futura. Machiavelli stesso, nello scrivere quel libro che diceva di quella speranza e di quel progetto, si innamora della Barbera. Tra i due protagonisti de La leggerezza dell’essere di Kundera l’innamoramento appare sullo sfondo della Primavera di Praga. E, per venire a qualcosa che mi è vicino, come ho già raccontato altrove, dopo avere letto della speranza e del progetto di vita futura in un  libro, Il trauma dimenticato, un giovane sogna il suo primo amore; e una donna sogna una città fatta di oro etrusco nella quale aveva cercato il suo amore. Se avrò tempo e vita, vorrei capire e dire di più su questa “legge dell’innamoramento”.

Ancora su Martin Eden. La figura di un vecchio saggio disincantato. Mette in guardia Martin Eden dal suo innamoramento. Gli dice che esso presto svanirà. Che la giovane aristocratica lo abbandonerà. Che si rivelerà una “cretina”, cioè cretino lui per essersene innamorato. E che la sua unica salvezza sarà quella di dedicarsi a quel Socialismo senza il quale non si sarebbe innamorato. Non è che avesse torto. Però è anche vero che nel film il vecchio saggio sconta suicidandosi la pena di avere detto che la giovane aristocratica si sarebbe rivelata “cretina”, cioè tale  lui per essersene innamorato.

Leggo il bellissimo romanzo di Irène Némirovsky, Due. Innamoramenti  che finiscono tragicamente o malinconicamente perché apparsi fuori del contesto di una speranza e di un progetto di vita futura, come a colmarne il vuoto e a sostituirvi un’illusione.

Leggo il libro di Eissler, Uomo diventa lupo. In breve sostiene la tesi che l’uomo non nasce lupo, ma può diventarlo. Una tesi antibiblica, antifreudiana, non certo nuova; la sosteneva già, ad esempio, Rousseau. Eissler lo fa appoggiandosi molto a Jung della cui teoria degli archetipi dà un’interpretazione che a me è parsa, ma non so se lo è, originale, comunque interessante: non li intende come dati innati, ma come sedimentazioni nell’inconscio collettivo di esperienze storiche. Il pregio maggiore del libro sta nella sua insolita composizione: una breve conferenza accompagnata da un mare di note. Quel pregio sta appunto nelle note. Un mare di osservazioni e di notizie; vanno lette a salti, scegliendo là dove si ferma l’interesse di ciascuno.

Leggo su “la Repubblica”  un articolo di Vittorio Lingiardi, nuovo astro della psicoanalisi la cui voce quel giornale  pone da un po’ in buona compagnia con quella di Recalcati. E’ intitolato Ecco perché siamo ancora freudiani. Il solito panegirico dell’opera di Freud cui “la Repubblica” ci ha abituati da qualche decennio. L’articolo però una cosa giusta la dice. Sta nel titolo che, come risulta dal testo,  è una parafrasi di quello di un famoso articolo di Benedetto Croce: Perché non possiamo non dirci Cristiani. La cosa giusta che Lingiardi dice con quel suo titolo è dunque che la psicoanalisi è una religione. Però nel dire a quel modo quella cosa giusta è anche violento. Non scrive infatti “Ecco perché sono ancora freudiano”, ma perché “siamo”, cioè perché lo saremmo tutti. Quindi dovrei esserlo anch’io e quanti come me non lo sono.

Ripenso al libro di un amico di anni fa, Carlo Mazzantini, A cercar la bella morte. Un collega mi aveva mandato un suo scritto in cui ripercorreva gli anni della sua formazione. Un po’ più attempato di me, attraversa nel suo racconto gli anni del Fascismo, della Repubblica di Salò, del dopoguerra. Il suo accenno alla Repubblica di Salò mi riporta alla mente quel libro e il suo autore, nato anche egli un po’ prima di me,  che nei suoi 18 anni aveva avuto anch’egli a che fare con quella Repubblica. Non si era però limitato, come il collega, a guardarla dall’esterno, vi aveva aderito ed aveva combattuto nelle file del suo esercito. Scampato alla sorte toccata poi a tanti suoi “camerati”, dopo molti anni passati all’estero, quando le acque si erano in Italia acquetate vi era tornato vivo. Intendo interiormente vivo grazie anche a una donna stupenda, pittrice di delicati quadri di immagini femminili alcuno dei quali ho in casa; ma anche grazie al suo macerarsi nel tentativo di comprendere un momento della sua vita che non gli apparteneva più e di curarsi dalla ferita che gli aveva lasciato. Per darsi ragione di quel suo momento e per curarsi della ferita che gli aveva lasciato scrisse quel libro. Ma quel libro più di tanto non lo curò. Né io allora seppi aiutarlo.

Forse non seppi aiutarlo perché avevo letto troppo Kirkegaard. Anche Kirkegaard, come il mio amico Carlo, andava a cercare la bella morte. Mi hanno invitato a parlare di religione e così mi sono rimesso a leggerlo. lo avevo molto letto nella mia tarda adolescenza senza averci capito molto, ma venendone comunque in qualche modo catturato. Mi catturavano la sua opposizione ad Hegel in nome del “Singolo” e il suo tentativo di comprendere e dare un senso al sacrificio di Isacco per mano del padre Abramo che cercava anche lui una bella morte,anche se non la propria, ma quella del figlio.

Il tentativo di Kirkegaard di dare un senso a quel sacrificio era disperato perché non poteva riuscirgli. E non poteva riuscirgli perché fondato su un qui pro quo. E  così fondato perché, scrivendo del sacrificio del figlio  che Abramo era disposto a compiere, non era di quel sacrificio che scriveva, ma di quello che egli stesso si era imposto di compiere per mano sua del suo rapporto con una donna, Regina Olsen, che, come Isacco per Abramo, era per lui la cosa più preziosa che avesse e che proprio per questo gli appariva «tremenda».

Un giorno Regina disse a Kirkegaard: «In fondo, io credo che tu sia pazzo». Il concetto di “abbandono” di Kirkegaard può essere accostato a quello di recettività? Forse sì. E se sì, possiamo dire che egli invidiava la capacità di Regina di abbandonarsi, di essere recettiva nei confronti di lui fino a comprendere la sua pazzia e le rispondeva con la propria pazzia, cioè opponendole quella che riteneva essere una maggiore capacità di abbandono e di recettività perché volta a un indefinito-assurdo che chiamava “Dio”.

Žižek, un filosofo da salotto e per di più da salotto francese. Non c’è disperazione in lui. Solo negromanzia. Va  a nozze con il pensiero freudiano sull’istinto di morte.

Non è il sonno della ragione, ma il suo essere troppo e troppo lucidamente desta a generare mostri.

Un amico mi contesta di andare sempre in cerca dell’unità e di non tenere conto dell’infinita complessità dei processi individuali e storici. Insomma, mi dice che tra cielo e terra ci sono più cose di quante io posso raccogliere  nel mio secchiello.  So che ha ragione e per un po’ mi avvilisco. Poi penso che tra cielo e terra ci deve essere anche posto per il mio giocare a raccogliere il mare dentro un secchiello.

Un altro amico critica la  mia presa di distanza dalla teoria freudiana del conflitto sostenendo che il conflitto può risolversi  nel trascendimento delle posizioni  in conflitto ed è la fonte dell’umana creatività. Ho creduto di potergli rispondere che la condizione di quel trascendimento non è compresa nel conflitto stesso e in nessuno dei suoi due termini, ma sta in qualcosa d’altro estraneo al conflitto. Ad esempio, gli ho detto, il conflitto tra me e te può essere risolto solo se entra in gioco qualcosa d’altro,  per esempio una comune volontà di intenderci.

Il conflitto non è tra esseri umani, ma tra il ricordo e l’oblio.

La perversione freudiana: il bambino soffre perché i genitori si amano o perché non si amano?

Le libere associazioni non sono altro che il risultato di una ricerca che il sognatore, quando tenta di comprendere un suo sogno da solo, conduce nel contesto della propria esperienza; quando invece tenta di comprendere il suo sogno in una situazione di analisi, conduce quella ricerca nel contesto dell’esperienza che condivide con l’analista.

Nel tentativo di comprendere alcuni miei sogni, mi rendo conto di cercare di trarre da loro qualcosa che mi aiuti a individuare e risolvere mie difficoltà presenti, cioè li guardo dal vertice di quelle difficoltà. Non è che sia del tutto sbagliato. Però chi sa cosa e quanto d’altro quei sogni invece diranno!

Se ci sarà una seconda edizione de Il trauma dimenticato, dovremo aggiungere qualche parola su un particolare tipo di sogni ingannevoli, quelli che sembrano belli, ma non lo sono.

Il maggior rischio che corre l’interprete che si avvale della visione bioculare, che è cioè disposto a cercare nei sogni non solo il conflitto ma anche il “bello” come condizione del suo superamento, non è quello di non scorgere il “bello” in un sogno che sembra brutto, ma  quello di lasciarsi sedurre da un sogno che sembra bello e mancare di riconoscere che è brutto.

Nei sogni belli si cela la massima insidia per l’interprete che si sia separato dal paradigma freudiano del complesso edipico e cerchi nei sogni il “bello”. Il paziente o la paziente possono saperlo e volerlo sedurre portandogli sogni belli. Egli può farsi ingannare dalla sua voglia di cogliere nei sogni il “bello”. Deve astenersi dal pensare di averlo subito trovato ed aspettare. Ad  esempio, una donna sogna di trovarsi sulla riva di un fiume accanto a un uomo, di accendere un fuoco e di mandare segnali di fumo. Sembra un sogno bello che dice di calore, di rapporto e di richiamo, addirittura di una emancipazione dell’umanità dal divino avvenuta con la scoperta del fuoco acceso dal rapporto uomo-donna. Però può essere anche un sogno fatto per sedurre l’analista. Questi deve aspettare, solo poi potrà sapere se è un sogno bello o se è … solo fumo.

Un altro esempio di sogno ingannevole di fronte al quale l’analista che è andato oltre il paradigma freudiano può soccombere è questo che ho sentito raccontare da un collega in un gruppo. Una donna tentata di rompere il rapporto con un uomo che non le era indifferente, come non lo era per lei il suo analista, sogna in una notte agitata di avere ritrovato un anello che aveva perduto. Sembra un sogno bello, sembra dire di un superamento di quella tentazione. Nella stessa seduta in cui ha raccontato il sogno, ella racconta però poi, con noncuranza e come per inciso, di essersi in quella notte masturbata. Non è dunque un sogno bello; perché se lo ha fatto prima  di quell’atto dice dell’annullamento del rapporto mediante quell’atto, se lo ha fatto dopo  dice della negazione dell’annullamento del rapporto mediante quell’atto.

A quella donna sarebbe stato possibile dire parafrasando Machiavelli: “La principessa che pensa di poter fare ciò che ella vuole, quando lo pensa è pazza”.

A proposito di masturbazione che tanti analisti trattano con superficialità ed allegria, hanno ragione i preti quando dicono che rende ciechi. Non però nel senso che intendono loro secondo cui l’atto stesso renderebbe ciechi, e fisicamente ciechi. Ma nel senso che nelle fantasticherie che accompagnano l’atto un fantasma dell’altro si  sostituisce alla sua realtà  e annulla la realtà mai facile del  rapporto con lui.

Una persona che sta male si rivolge di solito a un’altra con un’inconsapevole ambivalenza. Intende realizzare con l’altra un’uguaglianza, ma per realizzarla può o volere prendere dallo stare bene dell’altra di che stare bene anche lei, o volere che essa stia male come sta male lei. E’ la dinamica di fondo del rapporto analitico, ma anche di tanti rapporti interumani.

Il fatto che un rapporto non abbia un futuro non è un buon motivo perché non abbia, se può averlo, un presente.

Venire sedotti è vedere aprirsi un’apertura in uno spazio chiuso.

Quello che è stato resta senza bisogno di ricordarlo. Non bisogna rimanere abbarbicati al ricordo cosciente per paura che ciò che è stato scompaia nel nulla come l’astronauta di Odissea nello spazio. Se si dimentica forse ritorna.

Un fatto occasionale mi ha imposto di stare senza fumare per un mese e, dopo un mese, quando di nuovo potrei, non ne ho più voglia; e mi dispiace, come se avessi perso qualcosa.

Vivere è un continuo mentire: non possiamo vivere senza dare importanza alle cose che facciamo pur sapendo che non hanno alcuna importanza al di là di quella che attribuiamo loro.

Chi non è disposto a pagare il prezzo di future sofferenze non può accedere a momenti di gioia.

Il bue dice cornuto all’asino che in questo caso asino non è. Alla storica civile sentenza della Corte costituzionale  che, pur in specifici casi, depenalizza l’eutanasia, i preti rispondono che essa incrementa la cultura della morte. Proprio loro che con quella cultura si sono ingrassati.

Gennaio – Marzo 2019

Visto Il corriere di Clint Eastwood. Strano personaggio Clint. Conservatore, fan di Trump, propone però tra le righe pensieri lontani anni luce dall’ideologia dei conservatori americani e ancor più da Trump. Questo suo ultimo film ne dà un esempio. Lancia il messaggio che la cosa più importante nella vita è la famiglia. Il protagonista si rimprovera più volte di averla trascurata per il lavoro ed è prodigo di consigli ad altri di non farlo. In verità non è però che trascurasse la famiglia per il lavoro; ma, poiché il suo lavoro era coltivare fiori, la trascurava per amore dei fiori. Amava farli e vederli nascere.

Tanto ne ho sentito parlare che ho finito per comprare e leggere un romanzo di Steven King, l’ultimo, Outsider. Sarò capitato male, i precedenti forse sono diversi; ma, stando a questo, una grande delusione. Banale e cervellotico. Però comprendo come possa attrarre: ha il fascino delle favole di paese che sentivo raccontare nella casa dei miei nonni al fine di introdurre qualche brivido nel quotidiano. Stupore ingenuo, emozioni forti a buon mercato.

Deludente anche l’ultimo romanzo di Murakami L’assassinio del commendatore. Una trama sapientemente, ma anche forzatamente costruita. Non giunge a farti sognare come i primi suoi romanzi. Sembra quasi che, anziché sentirvisi portato, si senta costretto a scrivere. La sgradevole impressione che sia venuta in parte meno la distanza un tempo assoluta tra lui e Steven King.

Invece una gran bella sorpresa gli ultimi romanzi di Stefano Benni, Margherita dolce vita  e Prendiluna,  che mi sono trovato a leggere perché il 12 marzo egli è venuto a Bologna a presentare Il trauma dimenticato. In quell’occasione  ho detto qualcosa su di essi che dovrebbe essere presto pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane. Qui riporto solo una poesia che sta in Prendiluna e che, oltre  ad essere di per sé bella, dà il senso del mondo di affetti e pensieri in cui essi possono trasportare il lettore: «I ricordi non tornano. Sono stati sempre lì. / Sei passato sotto una finestra, hai ascoltato una musica /così bella da spezzarti il cuore. /Girerai il mondo, ma tornerai sotto quella finestra,/ Il pianista non ha mai smesso di suonare».

Lette alcune pagine del libro dello psicoanalista francese Fethi Benslama, Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermussulmano. La pessima traduzione italiana rende ostico un testo già di per sé difficile. Un esempio: verso  la fine compare più volte l’espressione “il padre piegato”. Incomprensibile, ma verosimilmente il testo francese diceva “piegé” maccheronicamente tradotto con “piegato” mentre significa “intrappolato”, il che può avere un senso che è dato da quanto il testo dice su Agar  e Sara: il patriarca intrappolato nell’impossibilità di generare, di essere padre, se Sara non rinunciasse a essere madre e non ci fosse “l’altra donna”, cioè la schiava Agar.

Mi sembra tuttavia di capire che l’autore voglia sostenere che Freud, nel non tener conto dell’Islam, o nel pensarlo come imitazione o appropriazione del monoteismo biblico, si è lasciato sfuggire la possibilità di pensare la genesi, l’origine, la creatività diversamente che come proprietà del padre. A suo avviso nell’Islam questa possibilità è invece presente. L’origine, la genesi, la creatività vi sono pensate come proprietà del femminile. Come dono di una donna, più esattamente di un “altra donna”, Agar, la schiava, che nasce dalla rinuncia della donna, Sara, a pensarsi come madre. L’autore suggerisce che tenere presente questo aspetto dell’Islam, rimasto sconosciuto a Freud, può portare a una riformulazione e sviluppo della psicoanalisi.

E’ una tesi interessante. Forse prossima a quanto io e Marianna Bolko, ne Il trauma dimenticato, abbiamo cercato di dire quando parliamo di “immagine femminile interna”. Difficile però verbalizzare il nesso. Forse si può tentare per vie traverse, cioè portando il discorso sul piano clinico, chiedendosi se le due donne del mito, Sara e Agar, si incontrano in analisi nel conflitto che lacera molte (tutte?) donne, tra il riporre la loro identità nell’essere madre o nell’essere donna, tra procreare e creare. Il mio scritto su  Machiavelli: Sara e Agar, Madonna Possessione di Finocchieto e la Barbera, donna che procrea la prima, donna che crea la possibilità dell’uomo di creare la seconda. Una possibile domanda potrebbe essere  poi questa: se l’Islam dà   tanta importanza al femminile, perché poi lo copre, lo imburka, lo infibula?

Ho riletto Estasi laiche di Fachinelli. Un pensiero di ampio respiro il suo. Chiaro il tentativo di andare oltre Freud. Presenta la teoria freudiana come un’ennesima espressione della tendenza del logos occidentale a contenere  tutto quanto non è razionalizzabile, a sopprimere i momenti in cui l’Io cosciente rischia di perdersi e di soccombere alla meraviglia. Sostiene che bisogna recuperare quei momenti. Perfetto, del tutto condivisibile. Già parlava di sbigottimento, cercava la possibilità di pensare la fondazione dell’Io sullo sbigottimento. Però … c’è di mezzo il mare. Per andare oltre Freud, parte dal mare. Dalla propria esperienza del mare, ma la generalizza in un mito, il mito della vita intrauterina.

C’era simpatia e prossimità di vedute, le poche volte che ci siamo incontrati, tra me e lui. So che mi stimava e fu uno dei pochi a votare contro la mia espulsione dalla SPI nel 1976. C’era anche una distanza; c’era la sensazione, almeno mia, di appartenere a due mondi diversi. Ricordo un pomeriggio a Milano, dopo avere conversato a lungo, lui con il suo gruppo io per conto mio.

Ora hanno intitolato un Istituto di psicoanalisi al suo nome. Hanno fatto di lui un nuovo santo della psicoanalisi. E secondo me gli hanno fatto torto.

Il bel romanzo di Romana Petri, Il mio cane del Klondike, più che un romanzo è una riflessione filosofica, un’indagine psicologica, su quanto può allo stato puro ribollire nel più profondo oscuro indicibile, non di una cane, ma dell’essere umano di fronte all’assenza che può farlo star male come un cane.

Letto Girotondo di Schnitzer. Una deliziosa rappresentazione del valzer dell’assenza.

L’essere assente della donna porta alla sua frigidità; l’essere assente dell’uomo alla sua impotenza.

La percezione dell’assenza, resa possibile dalla “reale” assenza dell’altro, è il farsi presente  del limite dell’esistenza o forse della propria poca virtù.

Infiniti modi di agire l’assenza. L’analista che, con l’intenzione di essergli presente, chiede al paziente di conferire con qualche suo familiare gli si rende assente.

Perché l’assenza seduce più della presenza?

Le estati di San Martino. Le più belle e le più tristi.

Se conservi il rapporto con la realtà rischi di perdere la visione delle cose; se conservi la visione delle cose rischi di perdere il rapporto con la realtà.

Un rapporto che ti ha portato fuori dalla stanza senza finestre in cui stavi chiuso può diventare esso stesso una stanza senza finestre in cui stai chiuso.

La gelosia che prende un uomo quando immagina o sa che una donna con la quale ha un qualche legame sta con un altro sottende un volere quell’uomo stare al posto di quella donna con quell’altro uomo. Sottende sempre una sua latente omosessualità. La quale però sottende a sua volta un vissuto religioso perché quel primo  uomo vorrà stare con quell’altro uomo in quanto scorge in lui una figura salvifica, forse un padre molto amato nella prima infanzia, ma più propriamente un Dio.

Un’altra versione è che il volere quell’uomo stare con quell’altro uomo al posto della donna sottende la sua incapacità o impossibilità di realizzare una propria  immagine femminile interna e dunque il bisogno di materializzarla nella propria identificazione con quella donna. Il presidente Schreber.

Le due versioni si raccordano in quanto il bisogno di avere un Dio procede dall’incapacità o impossibilità di realizzare un’immagine femminile interiore la cui sinergia con una immagine virile comprende una capacità di creare altrimenti alienata e attribuita a un altro che è un Dio.

Chi sta male perché si sente scisso, non sta male perché è scisso, ma si sente così per avere dimenticato qualcosa.

Il colore seppia ha la proprietà di poter virare verso il rosso o verso il nero.

La musica apre uno spazio infinito che l’uomo fantastica possa essere colmato da un corpo di donna.

Le trasformazioni nei sogni di immagini in altre immagini (per esempio la trasformazione dell’immagine di un amico ritrovato in quella di un topolino) non sono in realtà trasformazioni, ma rivelazioni di significato, la seconda immagine rivela il senso della prima.

Sogni che rivelano pensieri, sogni che riflettono pensieri.

Quando sei catturato in una nostalgia è come stessi sognando in un sonno svegliandosi dal quale è come tornare a sognare.

Un dettaglio passato inosservato o comunque sottovalutato. Per evitare che si abusi del reddito di cittadinanza si invita alla delazione chi, non fruendone, sia invidioso di chi ne fruisce. Brutto segno: l‘Inquisizione, il Fascismo, il Nazismo, lo Stalinismo.

Modi di pensare destinati a scomparire. L‘unica cosa che è possibile fare è lasciarne qualche traccia che sarà incomprensibile agli archeologi del futuro come a noi la scrittura degli Etruschi.

Immenso universo di infiniti mondi: l‘umanità è una fiammata che l’attraversa come una cometa e per un istante.