Paradossalmente, il tentativo kantiano di emancipare l’umanità dallo stato di minorità in cui la poneva la credenza nella trascendenza ha reso l’umanità maggiormente schiava da essa; perché, se nella trascendenza da cui egli voleva liberarla, erano reperibili tracce della fantasia umana che egli chiamava “chimere”, la realtà virtuale costruita con la ragione che egli le sostituisce si caratterizza per porsi come norma la totale assenza di tali tracce e di potersi realizzare pienamente solo in un al di là della vita. Per questo si è potuto parlare, a proposito degli sviluppi dati dallo stesso Kant alla sua filosofia critica, di visionarismo della ragione.
Kant si oppose agli sviluppi giacobini della Rivoluzione francese e al loro uso della ghigliottina come strumento di costruzione di una nuova umanità; ma la sua nuova umanità poteva risultare solo dall’innesto di teste virtuali in luogo di quelle reali.
Se la filosofia di Kant aveva realizzato una Rivoluzione copernicana rispetto ai precedenti modi di intendere e praticare la conoscenza per avere abbandonato l’interesse per il soprasensibile che comprendeva i sogni e essersi volta a definire i limiti della conoscenza stessa, la psicoanalisi di Freud può essere presentata come una Rivoluzione copernicana rispetto a tale rivoluzione: nel senso, però, che infatti il soprasensibile e i sogni entro tali limiti, li costringe in essi, li “addomestica” adeguandoli alle condizioni della conoscenza definite da Kant.
Con il concetto di una “sfera dell’Io libera dai conflitti” Hartmann si riferisce a apparati biologici ereditari e allo «sviluppo della percezione, dell’intenzione, della comprensione dell’oggetto, del pensiero, del linguaggio, dei fenomeni mnesici, della produttività; alle ben note fasi dello sviluppo motorio: l’afferrare, l’andar carponi, il camminare». Quel suo concetto dipende dall’Illuminismo e dalla teoria kantiana della conoscenza.
I quarantadue capitoli della Vita nova di Dante comprendono ciascuno il racconto di un evento traumatico, una composizione poetica e la sua interpretazione, cioè l’illustrazione della sua forma, del suo contenuto e della sua intenzione. In più casi tra il racconto dell’evento e la composizione è interposta la descrizione di una visione; in due casi è interposto il racconto di un sogno. Va sottolineata la specificità dell’evento traumatico nei due casi in cui tra il racconto e la composizione poetica viene interposto il racconto di un sogno: tale evento è costituito dallo sbigottimento indotto nel poeta sia da una presenza che da una assenza riguardanti l’una e l’altra un’immagine femminile talora indeterminata tal’altra determinata.
Nella Vita nova Beatrice è pura immagine: «Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce a uno medesimo punto, quanto alla sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare» [II, 1.2] «Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che pareva che sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero dello suo mirare (…) e mi sentio dicere appresso di me: “Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui”; e nominandola, io intesi che dicea[no] di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei (…) e mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade» [V, 1-2]. «Schermo» va inteso come “specchio”; cioè non significa “ciò che nasconde”, ma “ciò che riflette o su cui si riflette.
La parola “sbigottimento” compare nella Vita nova per indicare il vissuto di incertezza e potenzialità pure, che consegue all’incontro con una specifica forma del nuovo, e cioè con un’immagine femminile. Beatrice è per Dante «la donna della mia mente»; è senza nome poiché quel nome le viene dato non da lui, ma da quanti «non sapevano come la si chiamare», cioè non sopportavano il trauma e la novità della sua indeterminatezza.
Nella Vita nova di Dante il sogno svolge la funzione di elaborazione del trauma dello sbigottimento conseguente alla presenza o all’assenza di una figura femminile, ma è anche un trauma esso stesso, induce sbigottimento esso stesso; è comunque una condizione della creazione poetica, intendendo con ciò non solo i due sonetti che seguono il racconto dei due sogni, ma l’insieme dei sonetti e delle canzoni che figurano nell’opera e che l’autore offre alla comunità in cui vive come un nuovo che la traumatizzi e le induca uno sbigottimento al quale attingere le condizioni della sua durata.
Con Machiavelli l’immagine femminile fu liberata dal peso delle vesti sacrali che ancora indossava nella Vita nova. La Beatrice di Dante diventa la Barbera di Machiavelli; la celestiale e stellare bellezza dell’una diventa la «vaghezza» dell’altra nella quale si rispecchia quella che è la caratteristica fondamentale della realtà ora apparsa: il suo non sottostare al principio di causalità, il suo continuativo rapporto con il nuovo.
Pirsig, Murakami, Rushdie. Pirsig, nel romanzo Lila: un’indagine sulla morale, scrive a proposito del protagonista, che adombra lui stesso, «(…) gli venne fatto di pensare che il famoso sorriso della
Gioconda provoca da sempre un senso di turbamento in chi lo osserva.
E’ il sorriso di un giudice spodestato e rimosso in nome del progresso
sociale, che tuttavia, silenziosamente, tra sé, continua a giudicare».
Queste parole del romanziere americano dicono quanto Murakami dice con le sue immagini di donne che, scomparendo, evocano il terrore della fine del mondo umano. Che però non sono scomparse; permangono nella colpa che i protagonisti dei suoi romanzi si assumono della loro scomparsa e che li guida ad assumere la responsabilità di ritrovarle cercandole anzitutto nel luogo e nel tempo in cui un altro romanziere ancora, indiano questa volta, S. Rushdie, ha scritto che erano state un istante presenti.
Queste parole di S. Rushdie, ne L’ultimo sospiro del moro (p. 487), sul crollo, con la caduta di Granada, della cultura Moghul, prefigurano quanto, ne L’incantarice di Firenze, scriverà sulla fine del momento magico della storia di Firenze avvenuto solo un decennio dopo: «Rovi, pietre e rami mi laceravano la pelle. Non badavo a queste ferite; se la pelle finiva per strapparsi e per cadere, ero lieto di disfarmi di quel carico. Così sto seduto qui nell’ultima luce, su questa pietra, tra questi ulivi, guardando, oltre una valle, un colle lontano; e là sorge la gloria dei mori, il loro trionfale capolavoro e la loro ultima ridotta. L’Alhambra, forte rosso d’Europa, fratello di quello di Delhi e di Agra: il palazzo dalle forme interdipendenti e dalla segreta saggezza, dei giardini all’italiana e di quelli con giochi d’acqua, monumento a una possibilità perduta che nondimeno ha continuato a stare in piedi molto tempo dopo che sono caduti i suoi
conquistatori; come la testimonianza di un amore perduto ma dolcissimo, dell’amore che dura oltre la sconfitta, oltre l’annientamento, oltre la disperazione; dell’amore sconfitto che è piú grande di ciò che lo sconfigge, del piú profondo dei nostri bisogni, del nostro bisogno di scorrere insieme, di porre fine alle frontiere, di uscire dai limiti dell’io. Sì, l’ho
vista al di là da un’oceanica pianura, anche se non mi è stato concesso di metter piede nei suoi nobili cortili. La vedo svanire nel tramonto, e mentre scompare mi vengono le lacrime agli occhi».
Nella parola “Rinascimento” resta catturato, incastonato e come nascosto e negato il riferimento a quell’icona del nuovo che è la parola “nascita”. Lo fu fin dagli inizi, quando gli Umanisti la coniarono per dire non di un nuovo, ma della ricomparsa di un passato che era il mondo classico; e vi restò quando nell’800 Burckhardt disse la stessa cosa con la sola variante di identificare il mondo classico con il portatore di un ideale eroico; e, all’opposto, quando Tode ritenne di scorgervi la riviviscenza dell’ideale francescano di povertà della buona novella del Cristianesimo. V’è dunque una sorta di profonda e intima coerenza nel fatto che il Principe proponga una serie di variazioni nell’uso della parola “nuovo” alla ricerca di una definizione del suo significato che non si tragga dietro una contraddizione.
Il modello dell’arco riflesso è la riformulazione povera e distante nel tempo della legge della ripetitività dei fenomeni del mondo storico ed umano enunciata da Guicciardini in opposizione alla scommessa di Machiavelli di poter cogliere il nuovo anche nel rapporto con una vaghezza che gli si proponeva attraverso la sua Barbera.
Gli esseri umani quando sono in una condizione di omeostasi non la sopportano sentendosi privati del senso del proprio esistere; tanto che quell’esigenza, oltre ad accomunarli, sembra godere di una pervasività e centralità tali che essi, quando non possono darle un oggetto rompendo di fatto l’omeostasi, debbono darsi qualche simulacro del nuovo, ignari di soddisfare così l’inclinazione alla soppressione di quell’esigenza.
Tra i sogni traumatici che posero a Freud il problema della fine del mondo ce ne è uno particolarmente significativo. Non è propriamente un sogno, ma un sogno ad occhi aperti, una visione del futuro che due amici, forse una donna e di certo un poeta, gli comunicarono affinché egli li rassicurasse sul fatto che il futuro non comprendeva la fine del mondo. Mi riferisco al breve e intenso scritto intitolato Caducità. Esso si differenzia dagli altri che dedicò in quegli anni al tema della fine del mondo perché non vi compare propriamente il tema della fine del mondo, ma quello della fine della sua bellezza. Freud cerca di rassicurare i due amici, di liberarli dalla malinconia e dall’angoscia. Porta due argomentazioni: che la prospettiva della fine delle cose ne accresce il godimento e che essa è la condizione della comparsa di un nuovo. Non sembra cogliere che quelle malinconia ed angoscia non si riferivano al timore della scomparsa della bellezza del mondo ma a al timore della scomparsa del sentimento di quella bellezza. Non coglie neppure che in quel riferirgli di una malinconia era compresa l’accusa che fosse lui ad immalinconirli per essersi a lungo dedicato a demolire quel sentimento essendosi assunto il compito storico di orientare gli uomini e le donne che sognano verso la scomparsa della realtà psichica.
Murakami su Freud e Jung: «(…) l’inconscio è sempre mutevole (…) non c’è nessuno che conosca bene quello che succede nella “fabbrica di elefanti” dentro di noi. Freud e Jung hanno inventato diverse teorie, ma non erano altro che termini tecnici per poter parlare dell’argomento. Molto utili, ma non è che abbiano risolto il problema della spontaneità» (Murakami 1985 p. 325).
Nel dopoguerra si parlò a lungo delle due culture, però sulla base di un equivoco. Si ritenne che esse fossero quella scientifica e quella umanistica , mentre sono due culture interne a quella umanistica: quella dell’Io credo e quella dell’ Io sono.
Tra gli psicoanalisti c’è chi insiste nel dire che la clinica è più importante della teoria. Non sanno del rapporto tra teoria e tecnica. Una visione d’insieme della casa e del luogo del suo insediamento è necessaria all’architetto per definire i mezzi e le operazioni necessarie a costruirla. Una visione globale del corpo è la condizione necessaria dell’esistenza e dell’uso dei ferri da parte del chirurgo. Una visione della mente è la condizione necessaria dell’esistenza e dell’uso dei farmaci da parte dello psichiatra. Una visione globale della motocicletta è la condizione necessaria dell’esistenza e dell’uso degli arnesi da parte del meccanico. Questo rapporto di subordinazione della tecnica alla teoria è così stretto che non gli sfugge neppure la convinzione di potere definire ed usare una tecnica senza il presupposto di una visione di insieme; tale convinzione fa infatti capo a una delle tante forme di una teoria nota come “empirismo”.
V’è Il paradosso per cui, via via che diminuisce l’attenzione degli psicoanalisti per i sogni, la loro importanza aumenta: in un’epoca come la nostra, in cui si viene affermando una cultura della menzogna e le varie forme del virtuale prendono il sopravento sul reale, i sogni restano una voce di verità e realtà.
Letto il libro di Paolo Gallino, L’anima delle macchine. Per quanti sforzi si facciano di pensare che i robot abbiano vita, non si potrà mai metterli in grado di sognare. Di modo che i sogni e il sognare costituiscono lo spartiacque tra l’umano e il non umano.
I sogni, il sognare, sono la posta in gioco di un conflitto dal cui esito dipendono il concetto e la forma dell’umanità. Lungo tutta la storia dell’Occidente, e più intensamente a partire dalla fine del XVII secolo, si sono confrontate due opposte convinzioni. A una tradizione di pensiero che ha visto nei sogni e nell’interesse per essi una via di accesso al desiderato e al possibile, se ne è opposta un’altra che vi ha visto una via di accesso agli inferi ed ha scorto nella libertà di pensiero che il sogno assicura agli esseri umani una minaccia per la loro possibilità di convivere e sopravvivere.
Cosa ci si attende dall’arte se non di fare invadere la quotidianità da un po’ di dreamtime, di tempo del sogno?
A cosa mirano i regimi totalitari con il loro appoggio al realismo artistico se non a impedire un’arte che introduca nel mondo il tempo del sogno?
In psicoanalisi, almeno in quella classica, la riflessione sul desiderio è condizionata dal nesso tra desiderio e sessualità; quanto del desiderio sembri sfuggire questo nesso viene raccolto nel concetto di sublimazione.
Il setting dell’interprete, cioè il luogo e il momento del suo incontro con l’interesse per i sogni e la sua mentalità che produce la sua risposta ad essi, possono essere percepiti e rappresentati come un punto collocato in uno spazio e in un tempo artificialmente circoscrivibili a quelli della cultura ove egli agisce.
Sull’introduzione di farmaci in psicoterapia. Un esempio di questo caso è fornito da un sogno che una psicoterapeuta agli inizi riporta in un seminario dopo avere premesso, senza necessità apparente, che la sognatrice, una donna di una certa età sofferente di crisi di panico, aveva ultimamente integrato la psicoterapia con l’assunzione di un farmaco. Ecco il sogno: la sognatrice si trova in un paesaggio coperto da un manto di neve e si sente serena; si trova poi in macchina con la psicoterapeuta e si sente sicura; si trova infine fuori dalla macchina sola; ha davanti a sé un baratro ed è presa dal panico. Una volta riferito il sogno, la terapeuta dice di non essere riuscita a comprenderlo; aveva soltanto pensato che il manto nevoso potesse venire connesso con la coperta sotto la quale la sognatrice le aveva in precedenza comunicato di rannicchiarsi volentieri la sera. Vuole sapere se questo suo pensiero aveva senso. Indubbiamente lo ha, ma per comprendere quale sia bisogna stabilire un altro nesso: quello tra il manto nevoso e la comunicazione, fatta dalla terapeuta prima di riferire il sogno, di avere di recente ritenuto di dover somministrare alla sognatrice uno psicofarmaco, cioè qualcosa di cui anche si può dire che offre copertura. Questi due nessi permettono di ipotizzare un senso nell’altrimenti misterioso concludersi del sogno con il trovarsi la sognatrice sola davanti a un baratro in preda a una crisi di panico. In breve, si può ipotizzare che la sognatrice si fosse sentita “serena” fino a quando aveva la terapeuta accanto a sé; che poi si sia trovata sola, cioè si sia sentita abbandonata da lei e trovata perciò di fronte a un baratro. Se rivolgiamo l’attenzione ai dati contestuali disponibili incontriamo qualcosa che può confermare questa ipotesi. La sognatrice può avere vissuto come un abbandono non tanto la somministrazione dello psicofarmaco, che pure comporta di per sé l’introduzione nell’analisi di un corpo ad essa estraneo, ma il fatto che la terapeuta abbia lasciato passare la cosa come normale e non meritevole di quella elaborazione che Eissler ha raccomandato seguisse l’introduzione nell’analisi di un qualsiasi “parametro”.
Ho appreso dai giornali la morte di Massimo Fagioli. Stante la mia storia, non posso restare indifferente. Penso ai meriti e ai demeriti. Forse il maggior demerito si renderà evidente proprio ora se il suo tentativo di costruire il proprio mito nel privato dei suoi seminari si tradurrà, con la sua morte, nel tentativo di costruire un mito pubblico di lui intorno al quale tenere in piedi qualcosa che nulla ha a che fare con la psicoterapia.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...